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19 Jul 2025 | 1:30 pm

1. Geopolitica del Pakistan


Il Pakistan, come osservato nel corso dell'ultima guerra tra Iran e Israele e nel precedente conflitto con l'India rimane un Paese centrale nello scacchiere eurasiatico e fondamentale per l'evoluzione dell'ordine globale verso il multipolarismo. Qui verranno analizzate le sue principali direttrici geopolitiche

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Il 22 agosto 2018, in una conferenza tenuta presso il Ron Paul Institute, il colonnello in pensione Lawrence Wilkerson (già capo staff del tristemente noto ex Segretario di Stato nordamericano Colin Powell) dichiarò quanto segue: "Siamo in Afghanistan per lo stesso motivo per cui eravamo in Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale. Vogliamo essere il più vicini possibile alla BRI (Belt and Road Initiative). Se dobbiamo colpire con la nostra potenza militare possiamo farlo dall'Afghanistan. La seconda ragione è poter stabilizzare la potenza nucleare del Pakistan. La terza ragione è che se la CIA deve montare un'operazione come fatto tramite Erdogan contro Assad, il modo migliore sarebbe fomentare gli Uiguri attraverso l'Afghanistan".

A distanza di quasi sette anni da questa dichiarazione, è possibile chiedersi, visto il  "ritiro" del contingente nordamericano e NATO dall'Afghanistan, se la strategia degli Stati Uniti sia cambiata? La risposta è stata fornita a suo tempo da un articolo apparso sul New York Times nel quale il Generale Austin S. Miller (capo della coalizione guidata dagli Stati Uniti in Afghanistan) ha affermato che ad una presenza "dichiarata" di truppe farà seguito una presenza silenziosa e poco visibile fondata sul coordinamento operativo tra forze speciali e forze mercenarie sotto l'ombrello della CIA.

Questa presenza "mascherata", nei piani del Pentagono, dovrebbe essere accompagnata da un accrescimento della presenza militare nordamericana nei dintorni dell'Afghanistan, dall'Asia centrale a quella meridionale, col preciso scopo di mantenere sotto controllo l'espansione cinese ed ogni potenziale progetto di cooperazione regionale rivolto a ridurre l'influenza nordamericana nell'area. Tuttavia, l'ex Ministro degli Esteri pakistano Shah Mehmood Qureshi, sulle colonne del quotidiano Pakistan Today, assicurando comunque l'appoggio alle manovre di ritiro, ha annunciato il rifiuto di Islamabad a concedere (nuovamente) le proprie basi all'esercito statunitense, asserendo inoltre (con inusuale schiettezza) che ci sono delle forze che non sono affatto interessate alla stabilizzazione e pacificazione dell'Afghanistan.

La scelta pakistana di allora (che ha dovuto comunque fare i conti con le correnti pro-USA interne; si pensi all'estromissione dal potere di Imran Khan, legata anche alla sua aperta posizione filorussa dopo l'intervento diretto di Mosca nel conflitto civile ucraino), di fatto, si poneva in netto contrasto rispetto ad alcuni decenni in cui (sebbene in modo alternato) Islamabad ha agito come il principale strumento per il perseguimento degli interessi geopolitici nordamericani nella regione.

Quando nel 1977, dopo la defenestrazione di Zulfiqar Ali Bhutto (autore del manifesto geopolitico pakistano "Il mito dell'indipendenza"), salì al potere il Generale Zia ul-Haq, il Pakistan divenne una sorta di Stato "paria". Questi, nel 1978, riproponendo una formula che nello stile si avvicina non poco a certe affermazioni (ispirate dal puritanesimo) di alcuni presidenti nordamericani, dichiarò: "Ho una missione che mi ha dato Dio, la missione di portare l'ordine islamico in Pakistan".

Spietato e vendicativo quanto schivo e realmente devoto, le impressioni occidentali nei confronti di Zia cambiarono rapidamente a partire dal 1979 quando, a seguito dell'intervento sovietico in Afghanistan, divenne il principale "alleato" degli Stati Uniti.

Ora, prima di andare ulteriormente avanti, è bene sottolineare che, sul finire degli anni '70, i principali problemi strutturali che ancora oggi affliggono il Pakistan si erano già palesati in modo evidente.

Esistono storicamente tre relazioni fondamentali (e interconnesse tra loro) che hanno dominato l'evoluzione del Pakistan: quella tra esercito e società civile; quella tra Islam e Stato; quella tra esercito e Islam. La politica pakistana, inoltre, si è sviluppata sin dal principio seguendo due direttrici fondamentali: il paternalismo e la repressione. Questo costituisce in tutto e per tutto un'eredità diretta del Raj Britannico che nei territori dell'odierno Pakistan aveva consolidato il suo sistema di potere da un lato attraverso l'alleanza con la classe dei ricchi possidenti terrieri (a cui, ancora oggi, appartiene larga parte della classe politica e di cui faceva parte lo stesso Bhutto) e, dall'altro, reclutando in maggioranza sudditi di etnia punjabi tra le fila dell'esercito. A ciò si aggiunga la profonda crisi d'identità generata dallo stesso dominio coloniale britannico che portò i musulmani, un tempo sovrani dell'India, a ritrovarsi parte di uno Stato "occidentalizzato" nel quale erano guardati con malcelato sospetto. I Britannici, infatti, anche in virtù delle numerose ribellioni e manifestazioni di resistenza musulmane, non nascosero mai il loro sostanziale favore per la componente indù della popolazione.

Una volta creato il Pakistan, il Punjab (provincia più grande e popolosa) ha fornito il grosso della burocrazia e delle forze armate generando latente malcontento e forme di nazionalismo etnico a più riprese sfruttato anche da forze esterne al Paese (si pensi, oltre alla creazione del Bangladesh, alle insurrezioni in Belucistan – talvolta eterodirette e sostenute dall'esterno – del 1948, 1958-59, 1962-63, 1973-77, 2002, cui si aggiunge quella attuale arrivata addirittura ad una dichiarazione unilaterale di indipendenza).

Paradossalmente, la guerra per procura all'Unione Sovietica in Afghanistan ha consentito al Pakistan di congelare temporaneamente tensioni etniche e sociali interne attraverso il sostanzioso programma d'aiuti provenienti dall'"Occidente" allargato. Ed il periodo di undici anni nel corso dei quali Zia ul-Haq è rimasto al potere ha lasciato un effetto duraturo che si continua a percepire anche nell'attualità. Di fatto, nel corso di questo periodo, oltre al processo di forzata islamizzazione in stile wahhabita, grazie alla CIA, l'Inter-Services Intelligence (ISI) è stato trasformato in una formidabile agenzia di intelligence in grado non solo di gestire il conflitto afghano cercando in incanalarlo secondo i propri desideri (e quelli degli "alleati") ma anche di determinare in modo decisivo il processo politico interno dello stesso Pakistan.

In linea teorica, l'azione pakistana in Afghanistan aveva delle sue ragioni geopolitiche che andavano oltre la mera funzione di contenimento/indebolimento dell'espansione sovietica che ad essa avevano attribuito gli Stati Uniti.

I rapporti tra Pakistan e Afghanistan sono sempre stati piuttosto complessi. Nel corso degli anni ci sono state diverse rivendicazioni afghane su alcuni territori del Belucistan e della NWFP – North Western Frontier Province. Tra il 1955 ed il 1962 le relazioni tra i due Paesi si guastarono quando Kabul sostenne il progetto del "Grande Pashtunistan": ovvero, la creazione di un grande Stato Pashtun che inglobasse, oltre all'Afghanistan, i territori abitati da questa etnia in Pakistan.

Negli anni '80, Zia si autoconvinse che il sostegno pakistano al gihad antisovietico avrebbe posto fine a questo tipo di rivendicazioni installando a Kabul un governo Pashtun, islamista e fedele ad Islamabad. Ciò, inoltre, avrebbe garantito al Pakistan una profondità strategica che la sua conformazione geografica allungata, e priva di quella che in termini geopolitici viene definita come "riva" (un confine difficilmente superabile), non poteva assicurare in caso di una prolungata guerra con l'India.

Questo aspetto è di notevole importanza perché ad esso si lega anche il successivo sostegno pakistano ai Talebani che si cercherà di esaminare in seguito. Al momento, sarà utile ricordare che Zia, oltre a queste considerazioni di natura geopolitica, si fece guidare anche da alcune (neanche troppo velate) aspirazioni personali. Alla pari di un imperatore turco-mongolo, infatti, aveva sognato di ricreare un grande spazio islamico sunnita tra l'infedele Indostan, l'"eretico" Iran e la Russia cristiana. Era convinto che il messaggio dei mujaheddin afghani si sarebbe diffuso in tutta l'Asia centrale creando un blocco geopolitico di Nazioni musulmane guidato dal Pakistan che, così facendo, avrebbe finalmente ottemperato al suo compito storico-ideologico.

Sulla base di queste convinzioni, dopo aver rifiutato un (troppo ridotto) aiuto di 400 milioni di dollari da parte dell'amministrazione Carter nel 1980, accettò un piano quinquennale (1981-1986) di aiuti da 3.2 miliardi (che includeva anche l'invio di 40 caccia F-16) avanzato dall'amministrazione Reagan ed al quale si sarebbe dovuto aggiungere un nuovo piano da 4.02 miliardi per il periodo 1987-1993 (sebbene quest'ultimo non venne mai completato).

A partire dai primi anni '80, il Pakistan, alla pari della Turchia nel più recente scenario siriano, divenne una vera e propria autostrada per i miliziani islamisti sostenuti dall'"Occidente". In questo periodo, più di 35.000 miliziani arrivarono in Pakistan da diverse parti del mondo islamico attraverso canali di reclutamento, più o meno direttamente collegati alla CIA, per entrare in Afghanistan. Dal 1982, i mujaheddin afghani iniziarono a ricevere puntualmente 600 milioni di dollari all'anno degli Stati Uniti ed altri 600 dalle monarchie del Golfo Persico (Arabia Saudita in testa) che utilizzarono questo flusso di denaro anche per promuovere il wahhabismo all'infuori della Penisola Arabica. Tra il 1982 ed il 1988, vennero costruite in Pakistan oltre mille nuove scuole coraniche (madrasa) finanziate dai soldi wahhabiti provocando un vero e proprio fenomeno sradicante nei confronti della cultura islamica tradizionale dell'Asia centrale e meridionale. Nello stesso periodo, le università nordamericane sostennero apertamente la "cultura del gihad" finanziando la stampa di testi scolastici nelle lingue locali per indottrinare i giovani pakistani ed i profughi afghani (oltre 3 milioni) che avevano superato la Linea Durand. Nel 1985, Ronald Reagan arrivò addirittura al punto di definire i mujaheddin come l'equivalente morale dei Padri fondatori degli Stati Uniti nel corso di una visita di alcuni di loro alla Casa Bianca. Tra questi c'era pure Gulbuddin Hekmatyar, capo politico del Partito e gruppo paramilitare Hezb-e-Islami, che avrà un ruolo chiave negli sviluppi del conflitto afghano.

Il Pakistan, in questo periodo, conobbe una crescita del PIL che si attestò intorno al 6% annuo. Tuttavia, il costante flusso di denaro venne utilizzato non per investimenti nelle infrastrutture, nella sanità pubblica o nell'educazione dei giovani, ma per alimentare un vasto sistema clientelare e di corruzione. Alla pari di quanto avverrà con la "guerra al terrore" dei primi anni 2000, il denaro terminò nelle mani dei soliti noti (politici corrotti, burocrazia inefficiente, servizi segreti, gruppi estremisti di varia natura, organizzazioni criminali legate al contrabbando) che da quel momento in poi continuarono a fare affidamento sugli aiuti internazionali per mantenere inalterato il loro status privilegiato. Tuttavia, questo "idillio" tra USA e Pakistan non durò molto. Gli obiettivi iniziarono presto a divergere. A Washington, infatti, non piaceva l'idea pakistana di insediare a Kabul Hekmatyar ed il progetto geopolitico di Zia, la cui morte, avvenuta in un incidente aereo, rimane ancora oggi avvolta nel mistero. In fondo, non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti, dopo averlo ampiamente utilizzato, si liberano di un alleato divenuto troppo scomodo (la vicenda di Osama Bin Laden e dell'alleanza a corrente alternata con al-Qaeda, creata proprio nel contesto del conflitto afghano, è lì a dimostrarlo – sebbene oggi, in Siria, si stia assistendo ad un nuovo idillio tra i due). A ciò si aggiunga che proprio sul finire degli anni '80, con l'evidente malcontento di Washington (sempre pronta a soprassedere alla tutela della "democrazia" quando si tratta del proprio tornaconto e mai quando altri attori agiscono nel rispetto dei loro interessi), iniziarono a circolare voci sullo sviluppo clandestino (tramite aiuto cinese, saudita e libico) di armi nucleari da parte del Pakistan. Una notizia priva di conferme ufficiali ma che troverebbe riscontro nella natura dualistica dello stesso servizio segreto pakistano, storicamente animato da due correnti: una filo-americana ed una filo-cinese. A questo proposito è bene ricordare che Israele, dopo l'operazione Babilonia con la quale bombardò i siti nucleari iracheni, pensò anche ad eventuale attaccò contro il Pakistan, saltato a causa delle enormi difficoltà logistiche. Ad ogni modo, considerato il notevole flusso di armi verso l'Afghanistan proveniente dagli arsenali israeliani (in larga parte armi sovietiche sequestrate agli eserciti siriano ed egiziano nel corso dei conflitti del 1967 e 1973), il Pakistan riuscì a trovare un accordo con gli Stati Uniti sul suo programma nucleare: Washington diede il proprio benestare in cambio della promessa che la bomba non venisse mai utilizzata contro Israele ma solo come forma di deterrenza verso l'India.

Ora, tornando al discorso prettamente geopolitico, bisogna sottolineare che lo spazio geografico dell'Asia centrale ha avuto un ruolo di primo piano in tutte le principali teorie (e strategie) geopolitiche del Novecento. Tra queste, indubbiamente, spiccano le teorie "continentaliste" (sebbene su versanti opposti) dell'inglese Sir Halford J. Mackinder (1861-1947) e del tedesco Karl Haushofer (1869-1946), così come la dottrina russa eurasista.

Secondo il loro approccio, per lo più lungo l'asse Est-Ovest, confliggono due centri di potere mondiale: uno continentale ed uno marittimo (talassocratico). Per Mackinder, che enuncia la sua tesi nel 1904, esiste una gigantesca fortezza naturale, inaccessibile al potere marittimo, che si estende dall'Asia centrale all'Artico e dalla quale, nel corso dei secoli, hanno avuto origine diverse invasioni (Unni, Mongoli, Turchi) che hanno interessato l'intero spazio eurasiatico (dall'Europa all'Estremo Oriente). Il dominio di questa regione, che Mackinder chiama inizialmente "area perno" (pivot area) e successivamente "heartland" (con il senso di "cuore del mondo"), garantirebbe il dominio dell'intera massa continentale eurasiatica e, di conseguenza, del mondo. Afferma Mackinder: "Chi controlla l'Europa orientale controlla l'heartland; chi controlla l'heartland controlla l'isola mondo (l'Eurasia); e chi controlla l'isola mondo controlla il mondo". Per controllare l'Eurasia, bisogna dunque impedirne l'unità continentale in ogni sua forma. E, non a caso, per l'intero XIX secolo, l'Asia centrale fu sottoposta al gioco di spie tra Gran Bretagna e Russia zarista, con la prima fermamente decisa ad impedire a Mosca l'accesso ai mari caldi dell'Oceano Indiano.

Karl Haushofer, a sua volta, riprende le vedute di Mackinder circa l'importanza fondamentale dell'Europa centro-orientale, ma ne rovescia le conclusioni politiche, poiché difende l'idea di un'alleanza russo-tedesca, un Kontinentalblock eurasiatico.

Alle teorie di Mackinder e Haushofer si contrappongono quelle sul dominio marittimo dell'ammiraglio nordamericano Alfred T. Mahan (1840-1914) e di Nicholas J. Spykman. Entrambe, tuttavia, attribuiscono ancora una volta un ruolo centrale allo spazio dell'Asia centrale visto che sia Mahan che Spykman, in modo quasi profetico, identificavano nella Cina una potenziale minaccia all'egemonia globale nordamericana anche maggiore rispetto al Giappone (Mahan) ed all'URSS (Spykman). Proprio Spykman risulta essere il principale esponente di quella scuola "marginalista" che tanta fortuna ha conosciuto tra gli strateghi nordamericani.

Il suo pensiero è puramente determinista. Secondo Spykman la geografia è l'elemento più importante nella politica estera degli Stati (dalla geografia scaturiscono lotte egemoniche che si perpetuano nella storia). "I ministri vanno e vengono – affermava Spykman – i mari, i fiumi e le catene montuose restano lì dove sono". Le preoccupazioni dello zar Alessandro I e di Stalin per un accesso ai mari caldi, ad esempio, erano le medesime. Secondo Spykman, inoltre, il miglioramento della propria posizione di potenza è (o dovrebbe essere) l'obiettivo della politica interna ed estera di ogni Stato.

Nella prospettiva del teorico nordamericano, tuttavia, non è il controllo dell'heartland a determinare l'egemonia globale ma il controllo sul "territorio marginale" (il rimland): ovvero, la fascia peninsulare e insulare che circonda la fascia costiera eurasiatica. La difesa degli interessi statunitensi comporta necessariamente il controllo di quest'area e la sua frammentazione, perché la sua unificazione sarebbe disastrosa per gli Stati Uniti. Perciò, alla formula continentalista di Mackinder, Spykman contrappone la formula del potere peninsulare: "Chi controlla il rimland domina l'Eurasia; chi domina l'Eurasia controlla i destini del mondo".

Sulla base delle teorie di Spykman appare evidente sia la ragione per cui gli Stati Uniti, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si siano concentrati, oltre che sul Vicino e Medio Oriente, sulla ricerca di una forma di controllo della fascia costiera dell'Asia meridionale (dove il porti pakistani di Karachi e Gwadar hanno un valore strategico non di poco conto) e sudorientale; sia la ragione per cui il Pakistan non ha mai rinunciato (geopoliticamente e ideologicamente) alla ricerca della propria profondità strategica su entrambi i lati dei suoi confini: in Afghanistan e nel Kashmir occupato dall'India.

Alla pari dell'"ossessione" russa per la ricerca di uno sbocco sui mari caldi, la geopolitica pakistana, a prescindere da chi sia al potere, non potrà mai rinunciare al tentativo di esercitare la propria influenza sull'Afghanistan, di liberare il Kashmir (al centro di innumerevoli fasi di conflitto con l'India) – da sottolineare anche il fatto che spesso la causa del Kashmir viene associata dai vertici politici e militari pakistani a quella palestinese (ragione alla base del rifiuto di normalizzare i rapporti con Israele) – e, da "potenza tellurica" in nuce, di incrementare la propria interconnessione con l'Asia centrale. Oggi, inoltre, considerata la centralità di entrambi i Paesi all'interno del progetto infrastrutturale di interconnessione eurasiatica della Nuova Via della Seta, il Pakistan non può permettersi una destabilizzazione del vicino Iran o la caduta vera e propria della Repubblica Islamica, visti i notevoli interessi economici e di sicurezza condivisi (soprattutto per ciò che concerne il contenimento dei movimenti terroristi, sostenuti da India e Occidente, nel Belucistan). Questi, non a caso, prendono costantemente di mira il CPEC: il Corridoio Economico Sino-Pakistano, centrale per lo sviluppo dell'intero sistema Paese e fondamentale per le catene di approvvigionamento energetico cinesi e per bypassare il rischioso Stretto di Malacca.

Di fatto, una delle principali motivazioni che portarono Pervez Musharraf alla totale capitolazione nei confronti degli USA dopo l'11 settembre 2001 fu proprio il rischio di vedere vanificati sia gli sforzi compiuti nel Kashmir, sia l'ulteriore sviluppo del programma e delle installazioni nucleari pakistane. Il timore di Musharraf, in un contesto storico in cui le lobby indiane non persero tempo a presentare il Pakistan come uno "Stato sostenitore del terrorismo", era quello di dover affrontare una sconfitta geopolitica della medesima portata (o forse addirittura peggiore) rispetto a quella subita nel 1971: un trauma nazionale che determinò la separazione della parte orientale del Paese. Per comprendere meglio la "mentalità" che ha portato alla resa di Musharraf ai voleri USA si rende necessario un piccolo passo indietro.

Il 28 maggio 1998 il Pakistan era divenuto a tutti gli effetti una potenza nucleare dopo aver effettuato sei test a seguito di quelli realizzati da Nuova Delhi. L'Occidente rispose imponendo pesanti sanzioni che misero ulteriormente in crisi un'economia già profondamente depressa almeno dal 1996.

Il 28 giugno 1998, nonostante la crisi, il Ministero delle Finanze annunciò comunque il pagamento di 300 milioni di rupie (6 milioni di dollari) a favore dell'amministrazione talebana di Kabul. Tra il 1997 ed il 1998 il Pakistan fornì ai Talebani aiuti per 30 milioni di dollari.

Il sostegno del Pakistan al Movimento degli studenti coranici risale al secondo mandato di Benazir Bhutto come Primo Ministro (1993-1996). Questa aveva già avuto modo di governare dal 1988 al 1990 quando, dopo la morte di Zia e grazie alla mediazione degli Stati Uniti, era riuscita a trovare un compromesso con i militari attraverso l'assicurazione che non avrebbe intaccato il bilancio della difesa e avrebbe lasciato a loro la gestione della politica estera. Dopo pesanti accuse di corruzione (rivolte soprattutto al marito Asif Ali Zardari che sfruttò non poco la posizione della moglie) fu costretta a lasciare il governo nel 1990. Tuttavia, per l'intero decennio successivo, la politica interna pakistana venne trasformata in una sorta di faida tra la famiglia Bhutto e quella di Nawaz Sharif (altro personaggio non estraneo all'utilizzo della "cosa pubblica" per la salvaguardia dei propri interessi privati: l'attuale Primo Ministro è il fratello Shahbaz Sharif).

Questo periodo di tempo coincide anche con alcuni eventi geopolitici di notevole rilievo: in primo luogo, la dissoluzione dell'Unione Sovietica. Se la strategia USA negli anni '80 si era concentrata sulla creazione di una sorta di "cintura verde" (governi a trazione islamista-fondamentalista) ai confini meridionali dell'URSS, dalla metà degli anni '90 in poi, questa (anche in virtù delle teorie dell'ex Consigliere Nazionale alla Difesa dell'amministrazione Carter Zbigniew Brzezinski) si concentrò principalmente verso il controllo (più o meno diretto) dell'Asia centrale. Non a caso, tra il 1998-99, alcune Repubbliche ex-sovietiche della regione conobbero un incremento delle attività terroristiche (ad esempio, la formazione del Movimento Islamico dell'Uzbekistan che si stazionò nella strategica Valle del Fergana) che le porterà, volenti o nolenti, a dover accettare la presenza di basi USA sul proprio territorio.

Più o meno nel medesimo spazio temporale, l'Afghanistan, dopo aver esaurito il compito di mettere in crisi il potere sovietico, sprofondò in una sorta di buco nero in cui signori della guerra e della droga si spartirono il potere (spesso anche scontrandosi gli uni con gli altri) gestendolo anche a discapito e sulla pelle della popolazione civile.

L'iniziale successo e consenso riscosso dai Talebani fu legato proprio al desiderio popolare di ordine, giustizia e stabilità contro i soprusi dei signori della guerra. Il Pakistan iniziò a promuovere la causa talebana a partire dal 1993 ed in questo ebbe un ruolo di primo piano il Generale Naserullah Babar. Islamabad, a partire da questa data, iniziò progressivamente a ridurre il sostegno fin lì accordato a Hekmatyar (incapace di compiere la missione che l'ISI gli aveva affidato) ed a foraggiare il Movimento guidato dal Mullah Omar. L'obiettivo, ancora una volta, era quello di stabilizzare l'Afghanistan dandogli un governo filo-pakistano anche nella prospettiva di costruire una rotta commerciale diretta verso l'Asia centrale. Gli sforzi pakistani in questo senso si intensificarono dal 1995: l'anno in cui i Talebani conquistarono Herat.

Tuttavia, i Talebani si dimostrarono ben presto molto più "autonomi" di quanto lo stesso ISI potesse credere ed estremamente connessi con il tessuto economico e socio-politico del Pakistan. Questi, infatti, in molti casi possedevano documenti pakistani; avevano studiato ed erano stati addestrati in Pakistan; avevano già collegamenti profondi con Partiti politici islamisti pakistani e con gruppi criminali legati al contrabbando.

Che il contrabbando abbia storicamente rappresentato un grave problema per il Pakistan non è di certo una novità. Lo zelo con il quale il Paese dell'Asia meridionale sta cercando di portare avanti, insieme a Pechino, i progetti della Nuova Via della Seta, nonostante le tensioni ed i tentativi di sabotaggio, è anche legato alla volontà di regolare i traffici da e verso i già citati porti di Gwadar e Karachi.

Il contrabbando che si estende dall'Asia centrale al Golfo Persico, all'Iran ed al Pakistan, rappresenta una grave perdita in termini di entrate per ogni Paese coinvolto. Il Pakistan, vista la particolare posizione geografica e non essendo particolarmente ricco di materie prime, è quello che subisce maggiormente i danni derivati da questi mancati introiti. La sua industria locale, inoltre, è stata a più riprese messa in difficoltà dall'introduzione clandestina di beni di consumo provenienti dall'estero.

La principale fonte di sostegno per il Movimento talebano, prima ancora che l'ISI optasse per l'aperto sostegno, di fatto, era il "pedaggio" pagato dagli autotrasportatori in cambio dell'apertura delle strade afghane al contrabbando. Volendo fare un paragone con eventi più vicini nel tempo, si potrebbe fare nuovamente riferimento a quanto accaduto nello scenario siro-iracheno con il sedicente "Stato Islamico" abile nello sfruttare le rotte verso la Turchia e la porosità dei confini per il contrabbando di greggio e manufatti preziosi. Il giornalista pakistano Ahmed Rashid ha riportato che tra il 1992 ed il 1993 la perdita in entrate doganali per il Pakistan era stata di 3 miliardi di rupie; nel 94-95 è stata di 11 miliardi; nel 97-98 di 30 miliardi. Così ha scritto nel suo studio sulla nascita e sviluppo del  fenomeno talebano: "L'economia sommersa in Pakistan sale dai 15 miliardi di rupie del 1973 ai 1115 del 1996 […] Nel corso dello stesso periodo, l'evasione fiscale – compresa l'evasione dei diritti doganali – da 1.5 miliardi di rupie raggiunge il picco di 152 miliardi".

Questa forma di "evasione" incontrollata e mai del tutto ostacolata, per anni ha contribuito anche ad arricchire svariati gruppi di potere (corrotti) all'interno del Pakistan. Negli anni '90, inoltre, iniziarono a farsi sentire le ripercussioni della guerra per procura all'Unione Sovietica in Afghanistan. Questa, infatti, aveva creato la cultura dell'eroina, del Kalashnikov e della madrasa wahhabita. In dieci anni di guerra il profilo sociale del Paese era stato profondamente stravolto.

L'ISI, nel suo appoggio ai Talebani, ha cercato di sostituirsi ai gruppi criminali di Quetta legati al contrabbando. Quando i Talebani entrarono a Mazar-i Sharif nel 1998, i capi militari pakistani considerarono questa vittoria come una vittoria pakistana. Essi, inoltre, ritenevano che il governo talebano, a differenza di ogni precedente regime afghano, avrebbe riconosciuto la Linea Durand e tenuto a bada il nazionalismo Pashtun nel NWFP, dando, al contempo, uno sbocco agli islamisti radicali pakistani (dal 1994 al 2001 oltre 80.000 miliziani pakistani combatterono tra le fila dei Talebani) ed impedendo la creazione di un fronte interno antigovernativo.

Tuttavia, si è verificato l'esatto contrario. La vittoria talebana ha virtualmente eliminato un confine (in linea teorica mai esistito) che già da decenni veniva comunque attraversato in entrambe le direzioni. Ma il fallimento totale della strategia pakistana si registra definitivamente a partire dal settembre 2001.

Nel 1999 un colpo di Stato militare rovesciò Nawaz Sharif che dal 1997 aveva reso sempre più esplicito il sostegno ai Talebani. Il colpo di Stato fu l'esito della disastrosa avventura militare nelle alture del Kargil (nel Kashmir occupato dall'India) a seguito della quale venne addirittura paventata l'opzione nucleare. Principale responsabile dell'operazione fu Pervez Musharraf, allora capo delle forze armate. Questo, venuto a sapere dell'intenzione di Sharif di sollevarlo dall'incarico, lo anticipò assumendo la guida del Paese.

Come avvenuto venti anni prima con Zia, Musharraf si trovava in una condizione in cui il Pakistan godeva di una pessima reputazione sul piano internazionale. Una delle principali preoccupazioni per le amministrazioni nordamericane a cavallo del nuovo millennio era proprio quella di stabilire quale tipo di relazioni mantenere con Islamabad. Già Bill Clinton rafforzò notevolmente le relazioni con l'India ed impose sanzioni al regime militare pakistano.

Nel gennaio del 2001, l'ONU aveva imposto pesanti sanzioni all'Emirato dell'Afghanistan (allora riconosciuto solo da Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) al preciso scopo di bloccare i rifornimenti in armi che arrivavano proprio dal Pakistan.

L'11 settembre 2001, il generale Mehmood Ahmad, allora a capo dell'ISI, si trovava paradossalmente proprio a New York, a colloquio con i vertici della CIA che lo invitarono a convincere i Talebani a consegnare Osama Bin Laden. Il giorno dopo gli attentati, Mehmood venne ricevuto, insieme a Maleeha Lodhi (allora ambasciatrice pakistana a Washington), dal Vice Segretario di Stato Richard L. Armitage che chiese espressamente ai due quale parte il Pakistan avesse intenzione di sostenere. Mehmood affermò che il Pakistan era sempre stato dalla parte degli Stati Uniti e che, al contrario, era stata Washington a piantare in asso spesso e volentieri il Pakistan.

Di fatto, la politica estera del Pakistan per i successivi dieci anni era già stata decisa. Musharraf venne informato dell'attentato durante una conferenza militare a Karachi. Sapeva che gli "Stati Uniti avrebbero reagito come un orso ferito" e che avrebbero attaccato l'Afghanistan. La sua scelta, la via più semplice, fu stabilire che il Pakistan non avrebbe dovuto opporsi alle richieste USA (pur non partecipando direttamente all'aggressione all'Afghanistan) e avrebbe dovuto interrompere immediatamente il sostegno ai Talebani in modo da non correre il rischio dell'esposizione ad un possibile attacco nordamericano. Tuttavia, gli Stati Uniti, dal canto loro, avrebbero dovuto rimuovere le sanzioni e garantire un aiuto economico immediato ad Islamabad.

Il generale Mohammed Aziz, principale artefice della vittoria talebana sull'Alleanza del Nord, fu uno dei pochi ad opporsi. Insieme a Muzaffar Usmani e lo stesso Mehmood Ahmad, fece notare che la totale capitolazione ai desideri USA avrebbe significato l'azzeramento di qualsivoglia potere contrattuale e di autonomia geopolitica per il Pakistan nel breve e lungo termine. Di fatto, sebbene con alcune palesi contraddizioni, è ciò che avvenne. Basti pensare che, in spregio di ciò che è sempre stato il peggiore incubo geopolitico pakistano, venne instaurato a Kabul un governo filo-indiano come quello di Ahmid Karzai.

La "guerra al terrore" dell'amministrazione Bush ed i suoi strascichi nelle amministrazioni successive, alla pari del decennio del gihad antisovietico, hanno avuto effetti deleteri e drammatici sulla società pakistana e sulla credibilità di figure istituzionali che, presentandosi come "modernizzatrici" (Musharraf si dichiarò estimatore di Seyyed Ahmad Khan e del padre della Turchia moderna Mustafa Kemal), hanno consentito ad una potenza straniera di bombardare il loro stesso popolo.

Nonostante ciò, dopo vent'anni e la continua manifestazione di autonomia strategica talebana, il ritiro USA dall'Afghanistan può ancora una volta essere considerato come una vittoria dell'ISI che, per vie traverse, non ha mai smesso di sostenere i ribelli afghani, scatenando anche non poche tensioni con gli Stati Uniti. La stabilizzazione dell'Asia Centrale e dei suoi flussi commerciali rimane il principale obiettivo per un Pakistan che entro il 2050 conoscerà un notevole incremento della popolazione. Per questo motivo i suoi rapporti (anche culturali) con il gigante economico cinese rimangono fondamentali. Allo stesso tempo, è fondamentale il sistema fluviale dell'Indo dal quale il Pakistan riceve l'80% del proprio fabbisogno di acqua dolce. Uno stallo del Trattato siglato con l'India nel 1960, paventato da Nuova Delhi nell'istante della recente fase conflittuale, metterebbe in grave crisi il sistema agricolo ed industriale pakistano. Fattore che spingerà Islamabad a trovare una soluzione nel prossimo futuro.

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19 Jul 2025 | 7:00 am

2. Verso un ordine globale inclusivo: la visione del Vietnam al vertice BRICS di Rio de Janeiro


Il Primo Ministro Phạm Minh Chính ha ribadito il ruolo centrale delle nazioni in via di sviluppo nel rafforzamento del multilateralismo, presentando proposte concrete su ambiente, salute, commercio e intelligenza artificiale. Inoltre, numerosi incontri con leader mondiali e accordi bilaterali hanno suggellato il rilancio dei legami strategici con il Brasile e con altri paesi.

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Nel cuore di Rio de Janeiro, dal 5 all'8 luglio 2025, il vertice dei BRICS ha offerto al Việt Nam, recentemente divenuto partner strategico della piattaforma, un palcoscenico straordinario per riaffermare le sue ambizioni e proporre soluzioni innovative alle sfide globali. Il Primo Ministro Phạm Minh Chính, intervenendo nelle sessioni plenarie dedicate al rafforzamento del multilateralismo e alle tematiche economico‑finanziarie e di intelligenza artificiale, ha presentato una visione chiara e articolata, delineando importanti proposte strategiche rivolte non soltanto ai Paesi del BRICS, ma all'intero Sud Globale.

Il nodo centrale dell'intervento di Chính è stato la necessità di «rivitalizzare la cooperazione multilaterale e promuovere riforme delle istituzioni globali come Nazioni Unite, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e WTO per riflettere meglio le esigenze dei Paesi in via di sviluppo». A suo avviso, infatti, «è essenziale rafforzare la solidarietà Sud‑Sud, potenziare la connettività e costruire presupposti di fiducia tra nazioni sviluppate e in via di sviluppo». In questo contesto, una delle sue proposte ha evidenziato l'importanza di «promuovere la liberalizzazione commerciale rispettando i diritti e gli interessi legittimi di tutte le nazioni», invitando i membri dei BRICS e del Sud Globale ad «aprire i mercati, integrare le catene di approvvigionamento e condividere risorse, sostenendo al contempo il trasferimento tecnologico e la formazione professionale nei settori sanitario, educativo e infrastrutturale».

Un'altra importante proposta del Việt Nam ha riguardato l'intelligenza artificiale, argomento di grande dibattito a livello globale: a tal proposito, Chính ha insistito sul fatto che «l'IA deve servire l'umanità, non sostituirla», sottolineando la necessità di sviluppare un «sistema globale di governance dell'IA equo, sicuro e accessibile», capace di conciliare innovazione e benefici sociali. La creazione di «un ecosistema etico per l'IA» e la realizzazione di programmi orientati alle comunità, ha spiegato il Primo Ministro, devono garantire che «ognuno possa accedere e beneficiare delle opportunità offerte dall'intelligenza artificiale».

Accanto alle questioni digitali, Chính ha fortemente sostenuto l'urgenza di politiche ambientali e sanitarie globali: durante la sessione dedicata alla COP 30 e alla salute, il leader vietnamita ha illustrato cinque proposte chiave che vanno dalla promozione di un approccio inclusivo e condiviso per la protezione dell'ambiente e della salute pubblica, al principio di «responsabilità comune ma differenziata», che impone ai Paesi sviluppati il rispetto degli impegni finanziari e tecnologici nei confronti delle nazioni più vulnerabili. Ha poi sollecitato la mobilitazione di risorse sostenibili, proponendo meccanismi innovativi di finanza verde e una maggiore partecipazione del settore privato, insieme a un potenziamento della cooperazione scientifica e tecnologica per colmare i divari di sviluppo. Infine, il capo del governo ha chiesto riforme strutturali nelle sedi di governance globale, ribadendo «il ruolo centrale delle Nazioni Unite e degli organismi multilaterali, nonché l'importanza della partecipazione significativa di meccanismi regionali e interregionali, per garantire trasparenza ed efficacia nell'attuazione degli impegni».

Il Vertice BRICS è stato anche l'occasione per rafforzare il legame strategico con il Brasile. Nel suo incontro con il Presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, Chính ha espresso gratitudine per il caloroso benvenuto e ha ricordato con soddisfazione la storica promozione di livello dei rapporti a partenariato strategico avvenuta pochi mesi prima. Nel corso dell'incontro bilaterale, i due leader hanno concordato di redigere congiuntamente un piano d'azione per il decennio 2025‑2030, consolidando la fiducia politica e impegnandosi a mantenere scambi ad alto livello e a tradurre le ambizioni comuni in progetti concreti.

Sul fronte economico, il Presidente brasiliano ha garantito il proprio sostegno per la conclusione entro il 2025 delle trattative di libero scambio sia con il MERCOSUR sia in forma bilaterale. La concreta dimostrazione dell'apertura dei mercati è giunta con la firma di un Memorandum d'Intesa sulla cooperazione in scienza, tecnologia e innovazione, accompagnata dall'invio dei primi carichi di pangasio e tilapia vietnamiti in Brasile e del primo lotto di carne bovina brasiliana in Việt Nam. Questo scambio ha tracciato la rotta per l'ampliamento dell'accesso reciproco nelle filiere agricole e ittiche, nonché per la valorizzazione delle eccellenze di entrambe le nazioni.

Phạm Minh Chính ha definito questa fase una «nuova era di cooperazione concreta e dinamica», ribadendo che «la crescente complementarità delle nostre economie, da un lato, e la volontà politica condivisa, dall'altro, rendono possibile un partenariato che produca risultati tangibili per i cittadini di entrambi i Paesi». L'annunciata apertura dei negoziati su un accordo di libero scambio e su un accordo per la sicurezza alimentare, nonché l'impegno a promuovere maggiore accesso ai mercati e alle tecnologie, confermano come le relazioni Brasile‑Việt Nam si pongano quale modello di collaborazione Sud‑Sud, fondato sulla solidarietà e sulla mutua convenienza.

Le iniziative multilaterali e bilaterali di Chính a Rio rappresentano dunque un tassello decisivo nella strategia di «integrazione internazionale proattiva» del Việt Nam. In un mondo in rapida trasformazione e spesso segnato da divisioni geopolitiche, la diplomazia vietnamita mostra di saper coniugare pragmatismo e idealità, riaffermando l'indipendenza nazionale e l'autonomia decisionale, senza rinunciare alla co‑responsabilità globale. Come il Primo Ministro ha dichiarato, «solo attraverso l'azione collettiva possiamo lasciare alle generazioni future un pianeta prospero, un mondo vivibile e un'umanità felice».

Consolidati dall'esperienza storica e guidati da una visione lungimirante, gli incontri di Rio hanno confermato il Việt Nam come interlocutore credibile e propositivo nel processo di costruzione di un ordine mondiale più giusto, inclusivo e sostenibile. Sul solco tracciato dal Vertice, gli impegni presi a livello bilaterale e multilaterale dovranno ora tradursi in politiche e progetti concreti, affinché le promesse di Rio diventino realtà per il Việt Nam e per l'intero Sud Globale.

Strategic Culture Foundation
18 Jul 2025 | 10:53 pm

3. Trump’s ultimatum to Russia is bluster and bluff to hide proxy war defeat


In 50 days, Trump will have a serious amount of egg on his face when Russia's defeat of the NATO proxy war becomes more evident.

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What's behind Trump's angry ultimatum to Russia this week? The short answer: failure and frustration. Donald Trump promised American voters that he would end the Ukraine war in 24 hours upon his election in November 2024. Six months into his presidency, Trump has failed to deliver on his boastful promises.

This week, Trump flipped his pacemaker image by pledging billions of dollars worth of new American weaponry to Ukraine. He also issued a warning to Russia to call a ceasefire within 50 days or else face severe secondary tariffs on its oil and gas exports. The tariffs, quoted at 100 percent, will be applied to nations purchasing Russian exports, primarily Brazil, China, and India. The latter move indicates that the U.S.-led proxy war in Ukraine against Russia is really part of a bigger geopolitical confrontation to maintain American global hegemony.

In any case, Moscow dismissed Trump's ultimatum. Deputy Foreign Minister Sergei Ryabkov said that Moscow would not comply with pressure and that Russia would not back down from its strategic goals in Ukraine to counter NATO's historic aggression.

It is clear that Trump and his administration have failed to understand Russia's strategic position and the root causes of the conflict.

Trump's supposed diplomacy is seen to operate on a superficial basis more akin to showbiz, with no substance. He wants a peace deal with Russia to show off his vaunted skills as a business negotiator and to grab the limelight, headlines, and adulation.

Resolving a conflict like Ukraine requires deep historical understanding and genuine commitment to due diligence. Moscow has repeatedly stated the need to address the root causes of the conflict: the expansion of NATO on its borders, the CIA-sponsored coup in Kiev in 2014, and the nature of the NATO-weaponized Neo-Nazi regime over the past decade.

Trump and his administration have failed to appreciate Russia's viewpoint. Thus, expecting a peace deal based on nothing but rhetoric and vacuous claims about "ending the killing" is futile. It won't happen.

This failure, based on unrealistic expectations, has led Trump to adopt an increasingly bitter attitude towards Russian President Vladimir Putin in recent weeks. Ironically, Trump has accused Putin of duplicity and procrastination when, in reality, it is Trump who has shown no serious commitment to resolving the conflict.

Now, with chagrin and bruised ego, Trump has reacted with frustration over what are his own failings by issuing ultimatums to Russia. Trump's 50-day deadline for a Russian response to his demands has a similarity to the 60-day deadline he threatened Iran with, after which he carried out a massive bombing attack on that country. Trump's aggression towards Iran has turned out to be a fiasco and failure. Threatening Russia is even more useless.

This proclivity for threatening other nations has the hallmark of a Mafiosa megalomaniac. It is also causing Trump to lose support among his voter base, who believed he was going to end "endless wars." It's shambolic. Biden's war is becoming Trump's war because, at the end of the day, it is the U.S. imperial deep state that rules.

Trump's mercurial switch from professing peace in Ukraine to ramping up the promise of weapons shows that his previous aspirations were always hollow and contingent on other interests.

It seems that the 47th American president did not want peace after all. What was driving his apparent desire to end the conflict in Ukraine – what he deprecated as "Biden's war" – was simply to cut American financial costs.

What has appealed to Trump is that the proposed new supplies of American weapons to Ukraine will be paid for by Europe. Money and profit are all that matter to him. It is significant that when Trump announced the new arms racket scheme, he was sitting beside NATO chief Mark Rutte in the Oval Office. Rutte has a knack for wheedling, previously referring to Trump as "daddy" and this week absurdly praising the U.S. as the world's policeman for securing peace. It seems that the NATO and transatlantic ruling establishment have found a way to manipulate Trump. Tell him that the Europeans will henceforth directly subsidize the U.S. military-industrial complex.

The trouble for Trump and the NATO establishment is that it is all an unworkable bluff. For a start, the U.S. arsenal of Patriot missiles and other munitions has been depleted and destroyed by Russia over the past three years in Ukraine. There are no "wonder weapons" that can alter the battlefield dominance of Russia.

Secondly, the European economies are broke and can hardly sustain the proposed purchase of U.S. weapons for Ukraine, even if such supplies were feasible, which they are not. At least four European states, including France, the Czech Republic, Italy, and Hungary, have said they will not engage in any scheme of buying American weapons for Ukraine.

Thirdly, Trump's threat of secondary sanctions against Brazil, China, India, and others for doing business with Russia is a blatant assault on the BRICS and Global South that will only garner international contempt. Trump's bullying is neither viable nor credible. His earlier trade war against China has already failed and shown that the United States is an impotent giant whose power is a thing of the past. Trump had to climb down from his hobby horse towards China.

So, threatening to hit China and others with 100 percent tariffs for doing business with Russia is like a former prizefighter shaking a feeble fist while sitting in a wheelchair. He is liable to incur more self-harm.

Lastly, Russia is decisively winning the NATO-led proxy war in Ukraine. The Kiev regime's air defenses are non-existent at this stage. Therefore, Russia can and will press its strategic terms to end the conflict because it is the military victor.

Trump's ultimatum to Russia is nothing but bluster and bluff. He once mocked Ukraine's puppet president Zelensky, that he had no cards to play. Trump, for all his bravado, has only a couple of deuces himself.

In 50 days, Trump will have a serious amount of egg on his face when Russia's defeat of the NATO proxy war becomes more evident.

Strategic Culture Foundation
18 Jul 2025 | 6:00 pm

4. And it’s one, two, three, what are we fighting for? NATO’s wars


The whole Circus Ringmaster shtick only accelerates the BRICS/Global South high-speed train, Pepe Escobar writes.

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All of you Vietnam vets and draft resisters will recognize where this column's headline is coming from. Oh yes, this ain't the late 1960s anymore, so it's time to revamp it – no AI needed – and expand it: from now on, be assured everyone in the wild, wild West will be forced to fight and/or endure three overlapping NATO wars.

War number 1

It's Europe v. Russia, of course. Not proxy anymore: hot 'n nasty, direct. Considering the advanced rottenness of the whole Ukrainian front, new fronts are already proliferating: the South Caucasus; clandestine ops in the Baltic Sea; MI6 recruiting frenzy across Central Asia; fresh terrorism ahead in the Black Sea, especially Crimea.

Col. Lawrence Wilkerson succinctly nailed it: we are already on WWIII. Actually we are already deep in the extended preamble to WWIII. Circus Ringmaster in D.C. and the billionaires/donor class behind him are of course clueless. Re-reading Keynes – The Economic Consequences of the Peace – is an absolute must like never before. History does (italics mine) repeat itself. Yet this ain't 1914 or 1935; now nuclear weapons may come into play.

The Kremlin and Russia's Security Council are very much aware of the high stakes. In his recent interview to Kommersant, Sergei Shoigu even rolled out some key NATO numbers to stress the threat Russia faces: over 50,000 tanks and armored vehicles; over 7,000 combat aircraft; over 750 warships; 350 military and civilian satellites; an immense offense (italics mine) budget.

Well, what sly Shoigu did not say is that when push comes to shove, it only takes Mr. Khinzal, Mr. Sarmat, Mr. Zircon and Mr. Oreshnik to deliver a few strategic business cards to paralyze the whole NATO machinery in a matter of minutes.

War number 2

It's the Empire of Chaos v. Iran in West Asia, with Eretz Israel as much as proxy as a lead actor.

The Circus Ringmaster – whose only "strategy" is to concoct shady deals to enrich himself and shysters in his close circle – dreams of an Israeli-centric West Asia, a toxic crossover of the Abraham Accords 2.0 with the IMEC corridor, creating, as Alastair Crooke defined it, "a business-led West Asia, centered on Tel Aviv (with Trump as its de facto 'President'), and via this business connectivity corridor, be able "to strike further beyond – with the Gulf States penetrating into BRICS' south Asian heartland to disrupt BRICS connectivity and corridors."

Using the Arabs against BRICS won't cut it even with MbZ in the UAE and MbS in Saudi Arabia, who have both realized the business scam will only work if there is real peace in Gaza; some sort of humanitarian solution for the Palestinians; and rebuilding the Gaza strip.

The death cult in Tel Aviv will never allow any of the above: their plan is to kill them all, steall all their land, and eradicate their culture. And as the genocide goes on – totally legitimized by the NATO sphere – the death cult keeps bombing anything in sight, perpetrating the balkanization of Syria, and expanding Eretz Israel.

War number 3

It's NATO against China. Already decided in the latest summit in The Hague, side by side with the continuing war on Russia.

Yet actually the scam is much bigger: it's NATO's war on BRICS.

That was announced, casually, by that unspeakable Dutch mediocrity that makes former slab of Norwegian wood Stoltenberg sound like a quantum physics star. NATO's Secretary-General Rutti Frutti actually threatened India, China and Brazil directly, and ordered them to "call Putin" to prevent "Daddy" Trump from unleashing his next Tariff Temper Tantrum (TTT).

Beijing is hardly breaking a sweat. China humiliated the Circus Ringmaster by not backing down one inch in their trade/tariff war. Russia humiliated the Circus Ringmaster by not being coerced into a pathetic "ceasefire" – as in allowing NATO to re-arm. Iran humiliated the Circus Ringmaster by not signing an unconditional surrender. The Houthis humiliated the U.S. Navy – now that's one for the military annals – by forcing the Circus Ringmaster into a ceasefire after $1billion in failed bombing.

Lula in Brazil is about to humiliate the Circus Ringmaster by affirming Brazilian sovereignty in the face of an all-out trade and financial war (Trump even threatened to tax the popular Brazilian digital payment system, PIX). If slapped with 50% tariffs, Lula said Brasilia will slap the Empire of Chaos back under a reciprocity law.

The whole Circus Ringmaster shtick, with each plot twist draped in several layers of hubris and empty bluster, only accelerates the BRICS/Global South high-speed train, now increasingly being shaped as a geoeconomic, geopolitical and geo-strategic alliance of trans-continental proportions, reaffirmed at the Rio summit.

All that led, of course, by what I have been describing as the new Primakov triangle: the new RIC, Russia, Iran and China, complete with their interlocking strategic partnerships. Quite a few top Chinese academics not by accident are also starting to conceptualize the emerging, "post-West" environment with two new "I"s in BRICS: Iran and Indonesia, not India, should be at the heart of BRIICS.

Meanwhile, in Europe, Tricontinental analysis has noted how the – warmongering – German BlackRock chancellor has pledged "€650 billion over the next five years toward military spending in order to reach the [NATO] 5% target by 2035". That means Berlin being forced to raise "about €144 billion per year", via, what else, austerity and debt, translated into massive extra taxes on German consumers.

That, in a nutshell, is the "program" for the whole, fragmented, collective West in the near future: austerity for everyone (except the 0.01%); and NATO Wars, not Diamonds, Forever.

Strategic Culture Foundation
18 Jul 2025 | 5:00 pm

5. A reforma universitária exportada pelos EUA


O emburrecimento das universidades Ocidente afora provavelmente tem sua origem num modelo de gestão estadunidense de 2002, o qual desvaloriza tanto o professor quanto a produção de conhecimento.

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É inegável que houve, Ocidente afora, um emburrecimento daquelas instituições que deveriam prezar pela preservação e pelo avanço do conhecimento: as universidades. Na direita em geral e em setores da velha esquerda, esse emburrecimento costuma ser explicado pela adesão das instituições ao wokismo, que troca a produção de conhecimento pelo ativismo mais fútil e performático. Além disso, o conhecimento importa menos do que os atributos identitários das pessoas que porventura o produzam. Não se espera mais que a universidade produza a cura do câncer; em vez disso, demanda-se que a universidade empregue mulheres trans lésbicas e negros não-binários portadores de necessidades especiais.

Seria conveniente que os críticos notassem que o wokismo é uma ideologia promovida pelo mercado financeiro, que cria parâmetros e tabelas ESG para avaliar empresas segundo a sua adesão ao wokismo e à agenda verde. Não ter uma CEO fêmea, ou não comprar os carros elétricos de Elon Musk, pode vir a ser um pretexto para desvalorizar as ações de uma empresa, ou recusar-lhe crédito barato.

Assim, o artigo "Como as métricas de mercado quebraram a universidade", da professora estadunidense Hollis Robbins, é muito oportuno por mostrar a digital da lógica de mercado sobre a universidade woke.

Segundo ela, a "abordagem da hiper-politização da academia […] tem que começar pela admissão de que o planejamento centralizado baseado em métricas nutriu essa tendência em primeiro lugar. Embora outros fatores tenham pesado, a universidade centralizada se tornou uma incubadora de extremismo ideológico sobretudo porque o seu desenho estrutural transforma os estudantes em consumidores e incentiva o corpo docente a buscar visibilidade por meio de controvérsia em vez de sucesso acadêmico."

Não se tratou uma tendência espontânea. Houve um plano e um mentor: "O líder mais visível do movimento de centralização foi o presidente da Universidade Estadual do Arizona,  Michael Crow, articulou primeiro o seu modelo de uma 'Nova Universidade Americana' ao assumir o controle em 2002. Sua 'reinvenção' e 'transformação' incluíram quebrar 'silos' disciplinares para colocar os estudantes antes das universidades e o 'impacto' antes de todo o resto. […] O que isso significou na prática foi o enfraquecimento da autonomia dos departamentos, a dissolução da governança das disciplinas e a entrega à administração do poder de determinar contratações, prioridades de pesquisas e estruturas acadêmicas. Como Crow explicou numa avaliação retrospectiva das suas conquistas na Universidade do Arizona: 'Transformamo-nos numa instituição estudantecêntrica – isto é, o propósito da instituição é servir ao estudante e aprimorar os resultados na comunidade, não só prover um espaço para os professores serem grandes acadêmicos, ou cientistas, ou criadores.' Sob o cartaz de 'acesso para todos' e 'impacto social', o poder foi retirado dos departamentos acadêmicos, as disciplinas colapsaram em massivos institutos interdisciplinares, e o corpo docente/faculdade ficou de lado."

Como brasileira, ler essas linhas me espantou um bocado, porque o processo de centralização das universidades brasileiras ocorrido no segundo governo Lula foi apresentado por um dos seus elaboradores (o reitor Naomar de Almeida) sob o nome de Universidade Nova em 2007. Esta seria o resultado tanto das ideias do educador brasileiro Anísio Teixeira quanto do Processo de Bolonha. Não obstante, reconheço na Universidade Federal da Bahia (minha alma mater) o processo institucional descrito: as faculdades e os departamentos foram atacados como locais de "especialização precoce", mal a ser combatido por meio da criação de novos institutos interdisciplinares, além da possibilidade de o aluno cursar o que quiser – o que resultou em alunos dos recém-criados bacharelados interdisciplinares invadindo as disciplinas de ioga dos cursos de educação física. No fim das contas, se tratava da cópia de um modelo inaugurado em 2002 nos EUA.

De resto toda a reestruturação das universidades federais promovida pelo ministro Haddad (sob o nome de Reuni) aconteceu acompanhada pela expansão (exigia-se tanto a criação de novas instituições e cursos, quanto que houvesse mais alunos por professor), pela substituição dos vestibulares locais por uma prova que imita o SAT (substituindo-se assim o indispensável conhecimento memorizado por algo parecido com um teste de QI) e por uma adoção mambembe das affirmative actions (o Brasil acabou inventando tribunais raciais para determinar quem é negro e tem direito às vagas).

Paralelamente, cresceram no mercado brasileiro as propriedades de empresas educacionais lucrativas, como a estadunidense Adtalem Global Education Inc. O governo as financiava de dois jeitos: ou pelo programa Prouni, no qual pagava as mensalidades dos alunos, ou pelo Fies, no qual concedia empréstimos especiais ao alunos. Nesses casos, o que contribuiu mais para o emburrecimento da sociedade não foi o wokismo, mas a inflação dos diplomas e a queda da qualidade de ensino. Junto com essa expansão do setor privado, ocorreram mudanças na legislação que permitiram a substituição de professores por aulas gravadas.

Voltemos aos EUA. Quanto à ideologização, a Prof.ª Robbins a explica por meio da demanda dos alunos, que agora são vistos como clientes a serem atraídos por uma marca. Além disso, "os professores com estabilidade passam mais tempo respondendo às exigências de relatórios, ajustando as práticas para seguir os novos padrões de ementas e expectativas dos cursos. O planejamento central incentiva a contratação de instrutores em contratos temporários. O caminho para ter menos resistência – e maior segurança no emprego – reside em se alinhar com os estudantes e abraçar correntes ideológicas."

Da descrição acima, reconheço os meus professores reclamando dos relatórios a serem entregues para Brasília – especialmente da pós-graduação, que também tinha que ter muitos e muitos alunos para se justificar, de modo que os alunos eram admitidos mesmo que só estivessem interessados em receber uma bolsa de pesquisa e adiar o inexorável desemprego. O resultado disso foi uma horda de doutores para poucas vagas de trabalho – as quais, ainda por cima, costumam ser temporárias, como nos EUA. O resultado era doutores demais e empregos de menos. Por isso os pós-graduandos não ousavam dizer nada fora da ideologia da moda, com medo de jamais passarem nos concursos públicos que dão empregos estáveis e são feitos pelos professores. Desde a década de 2010, o wokismo é a ortodoxia nas universidades públicas. O governo federal adotou esse modismo e deu poderes aos seus puxa-sacos Brasil afora. Na universidade brasileira, então, o wokismo tem mais a ver com o puxa-saquismo dos docentes e aspirantes a docentes do que com a pressão do alunado. Isso confirma a explicação da professora, pois as perturbações wokes nos EUA, onde os professores têm menos poder, são muito mais graves do que no Brasil (onde nunca aconteceu nada parecido com o caso de Evergreen, e raramente há violência física).

A Prof.ª Robbins também aponta o efeito das métricas sobre a qualidade. Primeiro, há a pressão para aprovar alunos com o fito de favorecer as tais métricas – fato arquiconhecido no Brasil, seja no âmbito público ou privado. Além disso, as métricas "favorecem turmas cheias ou online que podem dar conta de centenas de estudantes ao mesmo tempo. Todo o mundo sabe que uma aula para 300 pessoas é mais 'eficiente' do que seminários para quinze ou vinte alunos, independentemente da qualidade pedagógica. Em seminários menores, posições extremadas enfrentam questionamentos e discussão de pares e professores. Há pouca oportunidade de diálogo ou troca intelectual no formato online. Um professor carismático pode apresentar pontos de vista rebeldes da moda para centenas de estudantes de uma vez, sem nenhuma oportunidade real de debate. As métricas vão mostrar uma alta nas matrículas e uso eficiente de recursos."

Aqui temos os problemas das universidades privadas brasileiras da época da expansão, exceto pelo professor carismático alcançando o posto de celebridade – pois no Brasil as universidades públicas ainda são as mais cobiçadas e nelas não há aulas com 300 alunos. No entanto, o fenômeno dos professores carismáticos também começa a dar o ar da graça por aqui no âmbito, com iniciativas como a Faculdade Mar Atlântico, propriedade de um instagrammer de direita, e as pós-graduações vendidas pelo ICL, uma plataforma de marketing digital voltada para a esquerda. O universo dos coaches se cruza, online, com o dos diplomas universitários. A ver se cola.

Bom, o que podemos concluir é que o emburrecimento das universidades Ocidente afora provavelmente tem sua origem num modelo de gestão estadunidense de 2002, o qual desvaloriza tanto o professor quanto a produção de conhecimento para valorizar métricas mercadológicas de "eficiência" que tratam o aluno como cliente. Tracei o paralelo com o Brasil e o leitor estrangeiro decerto poderá comparar com o seu país natal.

Strategic Culture Foundation
18 Jul 2025 | 4:00 pm

6. La geopolítica de la economía frente a las nuevas plataformas multipolares


El multipolarismo, con el propósito de no ser solo una redistribución de la dependencia, debe ser acompañado por un proyecto de soberanía económica.

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Durante los últimos veinte años la crisis de legitimidad del orden internacional construido en torno a la hegemonía de Estados Unidos y sus instituciones financieras ha abierto un espacio para la reafirmación de una lógica geopolítica e la dinámica económica global, permitiendo que la geo economía rama de la geopolítica, establecerse con plena autonomía.

El paradigma neoliberal codificado en el denominado Consenso de Washington progresivamente ha demostrado limitaciones sistémicas particularmente en los países del Sur Global donde a menudo ha producido crecimiento sin desarrollo, liberalización sin industrialización y estabilización monetaria a expensas de la soberanía fiscal.

En el contexto post pandémico, esta crisis se ha profundizado: disrupciones en las cadenas de valores globales, la nacionalización de políticas industriales, el renacimiento del concepto de la seguridad económica y la des-dolarización han marcado un explícito regreso a la estratégica dimensión en la cooperación económica, al extremo que nuevas plataformas multipolares están emergiendo con fuerza, proponiendo un paradigma alternativo al modelo Atlanticista.

El bloque de los BRICS es el más emblemático caso de contingencia estructural del sistema multilateral occidental. A pesar de su heterogeneidad interna, el grupo comparte la meta de promover un orden internacional basado en la soberanía económica, respeto por las singularidades nacionales y mayor equidad en la gobernanza global a través de instrumentos tales como el Nuevo Banco de Desarrollo el Arreglo Contingente de la Reserva, el fortalecimiento de las devisas regionales a través de acuerdos dirigidos y la descentralización del dólar norteamericano y del sistema SWIFT.

La región Íbero-Americana es una arena paradigmática para evaluar la efectiva capacidad de plataformas multipolares y para ofrecer alternativas sostenibles. Históricamente subordinada a circuitos de capitales norteamericanos y europeos América Latina ha experimentado una integración globalista marcada por la exportación de materias primas, inestabilidad macro-económica recurrente y limitada autonomía industrial. No obstante, en años recientes, ha habido un creciente enfoque en la cooperación Sur-Sur gracias en parte al resurgimiento general del Sur Global como macro entidad que desafía al Occidente colectivo, ubicado en el hemisferio norte. China ya ha suplantado a Estados Unidos como el principal socio comercial de muchos países latinoamericanos, en tanto Rusia, la India e Irán están expandiendo su influencia a través de acuerdos multilaterales. Brasil y Argentina en particular, se han demostrado como privilegiados interlocutores de los BRICS aunque con trayectorias diferentes debido a sus respectivas dinámicas políticas internas.

Por lo tanto el tema central sería: ¿pueden los BRICS constituirse en una plataforma funcional para responder a las aspiraciones económicas, productivas y sociales de la región Ibero-americana?

En términos teóricos el modelo de los BRICS descansa sobre un número clave de principios:

  • La no interferencia en la política y respeto por la soberanía;
  • Financiamiento no condicional sobre las reformas estructurales impuestas;
  • Promoción de la complementaridad productiva y no solo comercio;
  • Construcción de un orden multipolar sobre la base del equilibrio y la cooperación para un éxito compartido.

En esta vena, Ibero-América debe enfrentar desafíos estructurales internos para remediar las consecuencias de la dependencia occidental. Primero y principal deberá alejarse de las exportaciones primarias, cuyas ganancias están vinculadas a centros financieros extranjeros y reestructurar sus sistemas tributarios y sistemas de transacciones internacionales con el propósito de expandir su capacidad inversionista.

Los BRICS y de manera más general, las plataformas multipolares, representan una ventana histórica de oportunidades para Ibero-América porque ellos cuentan con un espacio más amplio para la negociación, una pluralidad de socios estratégicos y la posibilidad de construir agendas económicas que son menos dependientes de las limitaciones del Norte global.

Aquí yace la gran oportunidad: los países íbero-americanos se pueden dedicar a articular nuevas políticas económicas nacionales, consecuentes con sus tradiciones culturales y con objetivos que respeten su soberanía y el interés nacional. Con esta orientación necesariamente habrá una reforma de las instituciones públicas, se purgarán los aparatos exteriores y se introducirá una nueva clase política, la cual tendrá que ser entrenada en la lógica multipolar, proyecto que requiere un urgente estudio específico.

Para que el Multipolarismo no sea solo una redistribución de la dependencia, este debe ser acompañado por un proyecto de soberanía económica. Y este es el primero y el más importante objetivo de los BRICS. El desafío es tanto interno como internacional y compromete a la capacidad de las sociedades íbero-americanas para redefinir su modelo de desarrollo más allá de la subordinación a un poder o a otro.

Traducción desde el inglés por Sergio R. Anacona

Strategic Culture Foundation
18 Jul 2025 | 3:01 pm

7. Caso Epstein? Trump è il Deep State!


Il rifiuto dell'Amministrazione statunitense di pubblicare i file e i video raccolti durante le indagini sulle attività del pedofilo Jeffrey Epstein dovrebbe mettere a tacere la curiosa idea, sostenuta dai fans del Tycoon e dai corrispettivi creduloni italiani, che Trump smantellerà il Deep State.

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L'interesse per il caso è aumentato la scorsa settimana dopo che il Dipartimento di Giustizia e l'FBI degli Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione di due pagine in cui affermavano di aver concluso che Epstein non possedeva una "lista clienti" o che stava ricattando personaggi potenti (nonostante il procuratore generale Pam Bondi avesse lasciato intendere lo scorso febbraio che un documento del genere era sulla sua scrivania) e hanno deciso di non pubblicare ulteriori documenti dell'indagine. Il Dipartimento ha effettivamente divulgato un video che avrebbe dovuto dimostrare che Epstein si è suicidato in carcere, ma anche questo filmato ha suscitato perplessità a causa dell'assenza di un minuto nella registrazione.

L'elenco di coloro che erano nell'orbita di Epstein è un gotha dei ricchi e famosi. Tra questi non figurano solo lo stesso Trump, ma anche Bill Clinton, il principe Andrea, Bill Gates, il miliardario Glenn Dubin, l'ex governatore del New Mexico Bill Richardson, l'ex Segretario del Tesoro ed ex presidente dell'Università di Harvard Larry Summers, lo psicologo cognitivo e autore Stephen Pinker, Alan Dershowitz, il miliardario e CEO di Victoria's Secret Leslie Wexner, l'ex banchiere di Barclays Jes Staley, l'ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak, il mago David Copperfield, l'attore Kevin Spacey, l'ex direttore della CIA Bill Burns, il magnate immobiliare Mort Zuckerman, l'ex senatore del Maine George Mitchell e il produttore hollywoodiano caduto in disgrazia Harvey Weinstein.

I frequentatori di Epstein includono anche studi legali e avvocati costosi, procuratori federali e statali, investigatori privati, assistenti personali, addetti stampa, domestici e autisti. Tra questi figurano i suoi numerosi ruffiani e sfruttatori, tra cui la fidanzata di Epstein e figlia di Robert Maxwell, Ghislaine Maxwell, i media e i politici che hanno spietatamente screditato e messo a tacere le vittime, e chiunque, tra cui una manciata di intrepidi giornalisti, cercasse di denunciare i crimini di Epstein e la sua cerchia di complici.

Molto rimane occultato ma ci sono alcune cose che sappiamo. Epstein installò telecamere nascoste nelle sue opulente residenze e sulla sua isola privata caraibica, Little St. James, per riprendere i suoi potenti amici mentre si dedicavano a relazioni sessuali e abusi su adolescenti e minorenni. Le registrazioni erano oro colato per il ricatto. Facevano parte di un'operazione di intelligence per conto del Mossad israeliano? O servivano a garantire a Epstein una fonte costante di investitori che gli fornissero milioni di dollari per evitare di essere scoperto? O servivano a entrambi gli scopi? Epstein trasportava ragazze minorenni tra New York e Palm Beach sul suo jet privato, il Lolita Express, che a quanto pare era dotato di un letto per il sesso di gruppo. La sua cerchia di amici famosi, tra cui Clinton e Trump, risulta aver viaggiato sul jet numerose volte nei registri di volo resi pubblici, sebbene molti altri registri di volo siano scomparsi (1).

I video di Epstein sono raccolti negli archivi dell'FBI, insieme ad altre prove dettagliate, forse custoditi per essere utilizzati come arma di ricatto al momento opportuno.

Epstein si è suicidato, come afferma il rapporto ufficiale dell'autopsia, impiccandosi nella sua cella il 10 agosto 2019 al Metropolitan Correctional Center di New York? O è stato assassinato? Michael Baden, un medico legale assunto dal fratello di Epstein, che ha ricoperto l'incarico di medico legale capo per New York City ed era presente all'autopsia, ritiene che si tratti di un omicidio (2).

La giornalista investigativa del Miami Herald, Julie Brown, la cui tenace attività è stata in gran parte responsabile della riapertura dell'indagine federale su Epstein e Maxwell, documenta la partecipazione di Trump nel suo libro "Perversion of Justice: The Jeffrey Epstein Story". Nel 2016 una donna, usando lo pseudonimo di "Kate Johnson", ha presentato una denuncia civile presso un tribunale federale in California, sostenendo di essere stata violentata da Trump ed Epstein quando aveva tredici anni, nell'arco di quattro mesi, da giugno a settembre 1994. Johnson ha raccontato che Epstein l'ha invitata a una serie di "feste a sfondo sessuale per minorenni" nella sua villa di New York, dove ha incontrato Trump. Allettata da promesse di denaro e opportunità di lavoro come modella, Johnson ha affermato di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali con Trump diverse volte, inclusa una volta con un'altra ragazza di dodici anni, che lei chiamava "Marie Doe". Trump le ha chiesto sesso orale, si legge, e in seguito "ha allontanato entrambe le minorenni, rimproverandole con rabbia per la scarsa qualità della prestazione sessuale", secondo la causa depositata presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti nella California Centrale. Johnson ha affermato che entrambi gli uomini hanno minacciato di fare del male a lei e alla sua famiglia se avesse mai rivelato l'accaduto. La causa afferma che Trump non prendeva parte alle orge di Epstein, ma amava guardare, spesso mentre la tredicenne Kate Johnson praticava sesso orale. Sembra che Trump sia riuscito a far naufragare la causa comprando il suo silenzio e da allora la ragazza è scomparsa.

Nel 2008, Alex Acosta, all'epoca Procuratore degli Stati Uniti per il Distretto Meridionale della Florida, negoziò un patteggiamento per il magnate: l'accordo garantiva l'immunità da tutte le accuse penali federali a Epstein e chiudeva l'inchiesta dell'FBI per accertare se ci fossero altre vittime e figure di potere che avevano preso parte a questi crimini sessuali. Trump, in quello che molti considerano un atto di gratitudine, nominò Acosta Segretario del Lavoro durante il suo primo mandato presidenziale. Pochi giorni dopo l'arresto di Epstein, nel luglio 2019, Alexander Acosta è stato costretto a dimettersi dal suo incarico.

Nel racconto di Brown, due figure legali di spicco a livello nazionale, Ken Starr e Alan Dershowitz, sono in cima alla lista dei casi legali di Epstein. Un capitolo è intitolato "Starr Power", un altro "Dershowitz contro Brown" e si tratta di momenti di grande rilievo.

Negli anni '90, Starr fornì ai repubblicani del Congresso gli strumenti legali per mettere sotto accusa Bill Clinton che aveva mentito sulla sua relazione sessuale con Monica Lewinsky (3). Negli anni 2000, Starr e i suoi collaboratori dello studio legale Kirkland & Ellis raggiunsero un accordo con i procuratori che avrebbe tenuto Epstein fuori dalla custodia federale fino al 2019.

Nel 2016, Starr lasciò il suo incarico di presidente della Baylor University, mentre l'università texana era alle prese con uno scandalo di stupro, nel 2020 e si unì alla difesa di Trump durante il suo primo impeachment.

Dershowitz è ora un ex professore di legge ad Harvard; negli anni 2000, negoziò un "accordo di non prosecuzione" che permise a Epstein di scontare poco più di un anno in un carcere locale della Florida, nelle condizioni più dignitose.

Anche William Barr compare nella vita di Epstein. Quest'ultimo si diplomò al liceo a 16 anni, ma non terminò mai l'università. Ciononostante, Donald Barr, padre del secondo procuratore generale di Trump, gli diede il suo primo incarico: insegnante di matematica alla Dalton School nell'Upper East Side di Manhattan. Il padre di Barr, tra l'altro, scrisse anche "Space Relations", un romanzo gotico del 1973 che contiene scene di sesso alieno. Lo studio legale del giovane Barr, Kirkland & Ellis, iniziò a rappresentare Epstein, cosa che alla fine portò Barr a ricusarsi dal caso come procuratore generale di Trump. Epstein si impiccò durante la custodia federale, sotto la supervisione di Barr.

Brown presta attenzione alle relazioni sociali. Un tempo, Trump diceva che Epstein era "molto divertente" e "un ragazzo fantastico", e si meravigliava del suo interesse per le minorenni. Secondo Fire and Fury di Michael Wolff, Trump, Epstein e Tom Barrack – un uomo d'affari che poi ha presieduto l'insediamento di Trump, incriminato e rilasciato su cauzione per accuse di lobbying – erano un "gruppo di moschettieri della vita notturna degli anni '80 e '90" (4).

Alla fine, Trump ed Epstein si separarono, il predatore non era un buon affare ma qualcuno non ha dimenticato.

Il noto giornalista televisivo e opinionista statunitense Tucker Carlson, sostenitore di Trump, ha affermato nei giorni scorsi che era "estremamente ovvio a chiunque guardasse" che Epstein "aveva legami diretti con un Governo straniero" e che "a nessuno è permesso dire che quel Governo straniero è Israele, perché in qualche modo siamo stati indotti a pensare che sia una cosa cattiva". I commenti, che hanno suscitato applausi da parte di un pubblico giovane e pro-Trump alla conferenza conservatrice "Turning Point USA", sono stati pubblicati in un clima di protesta tra gli influencer repubblicani dopo che l'inchiesta tanto pubblicizzata dell'attuale Amministrazione USA sul caso Epstein si è conclusa con l'approvazione del resoconto mainstream (5). Molti tra i fedeli del MAGA sostengono da tempo che i cosiddetti attori del "Deep State" nascondano informazioni sui soci d'élite di Epstein e ora che la questione riguarda anche il loro 'idolo" appaiono sempre più sconcertati. Trump, che aveva legami pubblici con Epstein da decenni, si è scagliato contro le critiche provenienti dalla sua base, difendendo il procuratore generale in un lungo post sui social media, in cui esorta i suoi follower a non "sprecare tempo ed energie con Jeffrey Epstein, qualcuno di cui a nessuno importa". Trump, che appare in almeno un video vecchio di decenni insieme ad Epstein a una festa, ha negato le accuse secondo cui sarebbe stato nominato nei fascicoli o avrebbe avuto qualche legame diretto con il finanziere, mentre il suo ex alleato Elon Musk lo ha nuovamente incalzato a pubblicare i file del caso come aveva promesso.

Chi ride della vicenda è ormai soltanto uno: Benjamin Netanyahu.

___________

(1) Chris Hedges, Trump, Epstein and the Deep State, Substack, 12 luglio 2025.

(2) Epstein's Autopsy 'Points to Homicide,' Pathologist Hired by brother claims … "The New York Times", 31 ottobre 2019.

(3) Un libro critico sulla famiglia Clinton (Daniel Halper, Clinton Inc: The Audacious Rebuilding of a Political Machine) sostiene che Israele ha intercettato i telefoni della Casa Bianca e ricattato il presidente con registrazioni di stagisti per ottenere il rilascio di Jonathan Pollard, cfr. Rebecca Shimoni Stoill, Netanyahu said to have offered Lewinsky tapes for Pollard, "Times of Israel", 23 luglio 2014.

(4) Lloyd Green, Perversion of Justice review: how Julie K Brown brought Jeffrey Epstein down, "The Guardian", 25 luglio 2021.

(5) Allan Smith, "NBC News", 14 luglio 2025.

Strategic Culture Foundation
18 Jul 2025 | 3:00 pm

8. The Tony Blair Institute’s filthy role in planning the ethnic cleansing and ‘reconstruction’ of Gaza


By Jean SHAOUL

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Earlier this month, the Financial Times revealed that two staff members from the Tony Blair Institute (TBI) took part in discussions with the Boston Consulting Group (BCG) about plans to ethnically cleanse Palestinians from Gaza and build a "Trump Riviera" and "Elon Musk Smart Manufacturing Zone". A group of Israeli businessmen commissioned the plans.

The Right Honourable Sir Tony Blair KG set up the Tony Blair Institute for Global Change, to give the organisation its full name, in 2016. He told the Financial Times he wanted it to be the go-to consultancy for world leaders, saying "I want [the institute] to be entrepreneurial, agile and give governments good solid advice".

Tony Blair in 2010 in his role as Middle East Quartet Representative [Photo by European Union, 2010 / CC BY 4.0]

Its mission statement declares, "Under Tony's direction, TBI works with political leaders around the world to create real change for their people by advising on strategy, policy and delivery—with technology as an enabler of all three." The emphasis on technology reflects the interests of one of TBI's major backers, Larry Ellison, the founder of the computer technology company Oracle. It seeks "to help build more open, inclusive and prosperous countries for people everywhere".

What this means in practice can be seen from one document written by a TBI staffer submitted to BCG for consideration. It included a proposed "Gaza Riviera" with artificial islands off the coast similar to Dubai's Palm Island, blockchain-based trade initiatives, a deep-water port that would provide a link in the India-Middle East-Europe economic corridor, and low-tax "special economic zones" that are synonymous with low-wage, exploitative labour conditions.

The document said the devastating war in Gaza had "created a once-in-a-century opportunity to rebuild Gaza from first principles … as a secure, modern prosperous society"—and, of course, one without any Palestinians.

Blair's Institute at first tried to deny its involvement and then minimised its role in the proposal, pleading that it did not produce or endorse BCG's final 30-page submission: The Great Trust: From a Demolished Iranian Proxy to a Prosperous Abrahamic Ally—"Great" is made an acronym for Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation. BCG has shown the plan to the Trump administration as well as other Middle East governments.

The Boston Consulting Group had also helped establish the Israel- and US-backed Gaza Humanitarian Foundation (GHF) that delivers a trickle of aid to Gaza, accessible only at the risk of being shot, to legitimise the blocking of all other aid and the systematic starvation of the Palestinians.

Palestinians struggle to get donated food at a community kitchen in Gaza City, northern Gaza Strip, Monday, July 14, 2025. [AP Photo/Jehad Alshrafi]

The GHF has reportedly drawn up a proposal for establishing camps, which it calls "Humanitarian Transit Areas", both inside and outside Gaza. From these concentration camps, the Palestinians will then be expelled from the country. The UN has described GHF as a "fig leaf" for Israeli war aims, while humanitarian groups have refused to work with it. Since GHF's launch in May, Israeli forces have killed more than 800 Palestinians trying to reach its distribution sites.

Former Israeli Prime Minister Ehud Olmert has denounced the plans for a "humanitarian city", saying it would be a concentration camp and that forcing Palestinians inside would be ethnic cleansing.

BCG's work was commissioned as part of the broader, long-term plans of Prime Minister Benjamin Netanyahu's fascist government for the ethnic cleansing of Gaza, which used the events of 7 October 2023 as the pretext to implement this objective.

While the BCG, in an attempt to limit the damage to its reputation, announced that two of its senior partners were resigning over their role in the project, and GHF's chief executive Jake Wood has also resigned, little has been said about the role of the Tony Blair Institute for Global Change.

BCG's proposal is one of several postwar Gaza plans from governments and independent groups that have included the Arab League's $53 billion reconstruction programme set out by Egypt in March, as well as those of think-tanks such as Rand.

Together, they shed light on the role of big business, hiding behind thinks tanks, consulting groups and the like, in the negotiations and discussions over Gaza's future that masquerade as "peace talks" and are largely invisible to the general public.

Tony Blair's legacy as prime minister

Blair vies with his mentor Margaret Thatcher for the position of Britain's most hated politician because of the crimes committed when he headed the New Labour government of 1997 to 2007, above all his support for the US's "global war on terror" against Afghanistan and Iraq, his anti-democratic and authoritarian measures and open commitment to the "free market".

Margaret Thatcher, right, and Tony Blair, left, pictured together in 2002 [Photo by UK Government/OGL 3]

This unindicted war criminal will go down in history as the man who justified the illegal invasion and occupation of Iraq in 2003 on the basis of lies and defied mass popular opposition to the war.

His New Labour government did not repeal the Tories' vicious anti-trade-union legislation; failed to replace the council housing stock sold under Thatcher; kept key public utilities such as rail, energy and water in private ownership; brought in the private sector to finance and run public services; developed a highly punitive welfare system; and further deregulated the financial sector ahead of the 2008 financial crisis.

It set out to complete Thatcher's counter-revolution, dismantling the post-war welfare state, so long associated with the 1945 Labour government, and moving away from universal welfare provision to means-tested benefits.

Blair oversaw a huge transfer of wealth from working people to big business, with the richest 1,000 people in Britain more than trebling their wealth during his premiership. His right-hand man, Peter Mandelson, now the Starmer government's ambassador to the US, notoriously boasted that the government was "intensely relaxed" about "people getting filthy rich".

Blair worked closely with the trade union bureaucracy to impose his right-wing economic agenda, including the growth of low-paid employment and casualisation and the evisceration of the welfare state, and to stifle opposition to war.

He boasted about getting the Conservatives' Private Finance Initiative up and running, rebranding it as Public Private Partnerships, handing over much of Britain's public services, including the National Health Service, education, social care and prisons, as well as public infrastructure, to the private sector, providing newly minted corporations with a steady income courtesy of taxpayers' funds. He welcomed overseas oligarchs to tax-haven London, made a playground for the rich and the world's laundromat for dirty money.

There was no challenge to his rule from the "left wing" of the party. He was forced out of office for purely pragmatic reasons after the elections in May 2007 sharply reduced Labour's majority as opposition to the ongoing occupation of Iraq amid mounting casualties soared. He handed over the reins to Gordon Brown, his chancellor for 10 years.

Blair's post-Downing Street career: business under the guise of peace envoy

Following a long line of former prime ministers, Blair went on to build a lucrative new career outside politics—as a peace negotiator, highly paid celebrity speaker and consultant to American, European and Middle Eastern banks and financial houses—accumulating around £60 million in personal wealth. Despite his wealth, Blair and his wife were able to avoid paying £312,000 in tax on London property by acquiring an offshore firm, as revealed in the Pandora Papers in 2021.

No. 29 Connaught Square London, W2. In October 2004, the house was purchased by Tony Blair and Cherie Booth for a reported £3.5 miilion. [Photo by Andrew Dunn, 3 December 2004. / CC BY-SA 2.0]

On leaving No. 10, he was immediately shoe-horned—with the support of his partner in crime US President George W Bush—into the position of Middle East envoy for the United Nations, European Union, United States and Russia. He was given the task of helping develop the Palestinian economy under Israeli occupation and "improv[ing] governance", but from the start was seen as too close to the Israeli government.

Crucially, this role allowed him to hobnob with despots throughout the region and in the process cultivate lucrative business contacts.

Blair joined J. P. Morgan in 2008, one of Wall Street's best-known banks, on a salary said to exceed $1 million a year. He told the Financial Times he expected to agree a "small handful" of similar appointments with other companies in different sectors. He said, "I have always been interested in commerce and the impact of globalisation. Nowadays, the intersection between politics and the economy in different parts of the world, including emerging markets, is very strong".

This, and his other advisory posts which included at Zurich Financial Services on climate change, brought him very handsome financial rewards. His lectures to investment banks, private equity firms and chambers of commerce, reportedly yielding $250,000 for a 90-minute speech, made him the highest paid speaker in the world in 2008 and enriched his bank balance by £12 million, a sum equal to more than six times his lifetime earnings to that point.

Blair's memoirs, Tony Blair: A Journey, published in 2010, became a bestseller on both sides of the AtlanticIn it, he shamelessly defended his support for the Iraq war and said he would do it again.

He defended Dick Cheney, who served as Bush's Vice President from 2001-09 and was the driving force behind the Iraq war. If Cheney had had his way, after the US had brought down Saddam Hussein, they would have gone after the leaders of Iran, Hezbollah, Hamas, North Korea, and the whole "Axis of Evil".

Blair wrote, "He thought the world had to be made anew… by force and with urgency". He added, "To those on the left, he is an uncomplicated figure of loathing. His attitude terrified and repelled people. But I didn't think it was as fantastical as conventional wisdom opined". He wrote that you can't just "dismiss" Cheney's view—that the world had to be remade after 9/11.

President George W. Bush applauds former Prime Minister Tony Blair after presenting him Tuesday, Jan. 13, 2009, with the 2009 Presidential Medal of Freedom during ceremonies in the East Room of the White House. [Photo: White House photo by Chris Greenberg]

As well as cashing in on his links with big business, in July 2009 he launched his Faith and Globalisation Initiative with Yale University in the US, Durham University in the UK, the National University of Singapore in Asia and McGill University, Montreal, Canada, to foster globalisation and "greater understanding" between the three "Abrahamic faiths" of Christianity, Judaism and Islam. One of its financial backers was the Milken Family Foundation, set up by Michael Milken, the junk bond king sentenced to 10 years in prison for fraud, which also gave substantial funds to Friends of the Israel Defence Forces and settlements in the West Bank.

Blair, the Egyptian revolution and support for al-Sisi

In the same year, he set up Tony Blair Associates (TBA), modelled on Henry Kissinger Associates, to "allow him to provide, in partnership with others, strategic advice on a commercial and pro bono basis, on political and economic trends and governmental reform", with the profits from the firm supporting Blair's "work on faith, Africa and climate change". TBA won a raft of multimillion consultancy contracts with some of the world's most repressive regimes, including Kazakhstan, Kuwait, the UAE and Colombia.

One of his clients was Kazakhstan's notoriously corrupt dictator, Nursultan Nazarbayev. In 2012, he gave damage-limitation advice to Nazarbayev on how to handle criticism following the police killing of 14 and injuring 86 protesting workers in Kazakhstan's oil-producing town of Zhanaozen in December 2011, leading to protests in the eastern Caspian region.

His most controversial client was Egypt's blood-soaked dictator President Abdel Fattah al-Sisi who overthrew Egypt's first democratically elected president, the Muslim Brotherhood-affiliated Mohammed Morsi, in 2013. The United Arab Emirates, Kuwait and Saudi Arabia reportedly picked up TBA's tab for proffering advice on how to attract inward investment into Egypt. Blair was reportedly considering opening an office in Abu Dhabi, capital of the UAE, to strengthen his links with the Gulf despots.

President Abdel Fattah el-Sisi (left) shakes US President Joe Biden's hand at the GCC+3 summit in Jeddah, Saudi Arabia, July 16, 2022. US Secretary of State Antony Blinken is in the background.

According to Blair, "The Muslim Brotherhood government was not simply a bad government. It was systematically taking over the traditions and institutions of the country. The revolt of 30 June 2013 was not an ordinary protest. It was the absolutely necessary rescue of a nation".

Al-Sisi's military coup ushered in a brutal dictatorship responsible for the deaths of more than one thousand civilians in the weeks that followed in what became known as the Raba'a massacre in central Cairo, as well as military courts that handed down death sentences to hundreds of prisoners in mass trials that lasted just minutes. Al-Sisi's military junta restored the military-police state as it existed under Hosni Mubarak prior to the 2011 Egyptian revolution, expanded the military's grip on the economy and imprisoned some 60,000 political activists and opponents.

When al-Sisi won the presidency in May 2014 with a 96 percent majority in a dictator-style election tainted by irregularities, repression of his political opponents and suppression of free speech, Blair was quick to congratulate him on "winning the support of the people". He said al-Sisi deserved the support of the whole international community.

In his role as Middle East envoy, Blair criticised what he saw as reluctance to engage in Libya following the overthrow of the Gaddafi regime in 2011. He attacked the decision by US President Barack Obama to abandon plans in September 2013 to intervene in Syria directly on the side of Islamist rebels supported by the Gulf States, Turkey, the CIA and Israel, against the Assad government, following the surprise vote against such a move in the British parliament.

After emphasising the role of the West in funding opposition groups with well-documented links to Al Qaida, he lamented bitterly, "We call for the regime to change, we encourage the opposition to rise up, but then when Iran activates Hezbollah on the side of the Assad government, we refrain even from air intervention to give the opposition a chance".

Despite his supposed mission to help bring about peace between Israel and the Palestinians, he had little to say about Israel's occupation of the West Bank and Gaza Strip and its role in spawning conflict throughout the region. In January 2014, he paid tribute to Ariel Sharon—reviled as a war criminal by Palestinians and human rights groups—as "a giant of this land" at the state memorial service for the former Israeli prime minister, the man who bore "personal responsibility" for the massacre of 3,000 Palestinian refugees in the refugee camp of Sabra and Shatila, Beirut, for which he was never held accountable.

Blair's contract with al-Sisi provoked a storm of protest, with a group of former British ambassadors and political figures joining a campaign for his sacking as Middle East envoy. They cited his defence of military intervention in Iraq and Syria and the conflict of interest between his public position as envoy and his private business dealings in the Middle East.

Under Blair's watch, the so-called two-state solution became a dead letter; exploration and negotiations with the oil and gas majors over the offshore energy resources and the associated pipelines in the waters opposite Israel and Gaza took place; Israel launched three murderous assaults on Gaza. In the West Bank, the settlements and the number of roadblocks and checkpoints expanded. As criticism increased, Blair finally stepped down in May 2015.

In 2016, Blair folded all his business interests—The Africa Governance Initiative, The Tony Blair Faith Foundation and his Initiative for the Middle East—into a new venture, The Tony Blair Institute for Global Change (TBI), which now boasts a staff of 900 plus. TBI's clients have included Azerbaijan, Rwanda and Saudia Arabia, which TBI continued to advise even after the murder of the journalist Jamal Khashoggi in 2018.

Screenshot of the Tony Blair Institute for Global Change website [Photo: https://institute.global]

Blair told the Financial Times, "If we don't work in any country where there are problems of human rights, you're going to be working with a small list of countries". TBI has received donations from the US Department of State and Saudi Arabia.

Blair, British imperialism and Starmer's Labour Party

Blair's record both during and after his premiership is not simply that of an individual, but of a leader of the Labour Party, whose policies and actions at home and abroad have been shaped for nearly 120 years by its pro-capitalist programme and decades-long history of defending the interests of British imperialism—its corporations and financial institutions.

From left, Labour leader Sir Keir Starmer, former prime ministers Sir Tony Blair and Gordon Brown ahead of the Accession Council ceremony at St James's Palace, London, where King Charles III is formally proclaimed monarch, London, September 10, 2022 [AP Photo/Kirsty O'Connor]

In October 2015, warning against illusory claims that Jeremy Corbyn's recently becoming leader of the Labour Party heralded its "left" transformation, the World Socialist Web Site warned

It was Labour, and not simply Blair, which backed the second war in Iraq, just as it did the first in 1990, and as it did in Kosovo, Sierra Leone and Afghanistan. Labour MPs did so not because they believed the threat posed by [weapons of mass destruction] WMDs—millions of people saw through Blair's lies—but because the party has been shaped by its pro-capitalist programme and decades-long history of defending the interests of British imperialism.

MPs voted with Blair because they shared his central aim of securing the global interests of the British bourgeoisie through a military alliance with Washington. Indeed, the issue remains so politically sensitive that in 2012, then Attorney General Dominic Grieve upheld the 2009 veto by then Justice Secretary Jack Straw of any disclosure of Cabinet meeting minutes from 2003 when Iraq was discussed.

In 2011, just 11 Labour MPs voted against participation in the war against Libya, with supporters employing identical "humanitarian" rhetoric as was used to justify the devastating assault on Iraq.

The election of Corbyn changes nothing fundamental in this regard.

History records that any leader who is seen to conflict with Labour's fundamental imperialist orientation either faces being replaced, as was George Lansbury in 1935 at the instigation of the Trades Union Congress, or will be obliged to abandon their pacifist pretensions as did Michael Foot in 1982 over the Falklands/Malvinas."

This warning was confirmed, with Corbyn betraying all those who entrusted him with waging a political struggle against the Blairites and instead preparing the way for their return to power under Keir Starmer.

Jeremy Corbyn (left) and Sir Keir Starmer at an event during the 2019 General Election when Corbyn was party leader and Starmer his Shadow Brexit Secretary [AP Photo/Matt Dunham, File]

Less than a year after he became Labour Party leader, on August 5, 2021, Starmer told the Financial Times of his vow to "turn the Labour party inside out", "urging activists to embrace Tony Blair's political legacy to help the UK's main opposition party win the next election. He said it was vital to demonstrate that Labour was not a party of protest but was serious about winning power—and that meant being 'very proud' of what it achieved under Blair and his successor as prime minister Gordon Brown when it was last in office." He did so because he was "acutely aware that among my first tasks is rebuilding the relationship between the Labour party and business".

Today, as grotesque as is Blair's involvement in the filthy work of drawing up plans for a post-genocide Gaza, it is more than matched by his disciple Starmer, who is deploying Britain's military and intelligence resources to facilitate the ethnic cleansing necessary for the realisation of Blair's vision and mobilising the state apparatus to repress domestic opposition in a way that Blair could only dream of.

Original article:  www.wsws.org

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18 Jul 2025 | 2:00 pm

9. Tunisian group sues French-Tunisian imam for ‘high treason’ over visit to Israel


By Elodie FARGE

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Watchdog demands Hassen Chalghoumi loses citizenship after 'undermining the prestige of the Tunisian state'

Tunisian organisation has filed a legal complaint against French-Tunisian imam Hassen Chalghoumi and called for him to be stripped of his Tunisian citizenship following his recent visit to Israel in the midst of its onslaught on Gaza.

Chalghoumi, the imam of Drancy's municipal mosque near Paris and the chairman of the Conference of Imams of France, led a delegation of Muslim clerics from Europe to Israel in a visit that claimed to "build bridges and promote inter-religious dialogue".

The delegation of 15 imams and Muslim leaders from France, Italy, the Netherlands, Belgium and the UK met with Israeli President Isaac Herzog and visited sites connected to the 7 October 2023 Hamas-led attack, including Kibbutz Kfar Aza near the Gaza Strip.

The trip was organised by the European Leadership Network (Elnet), a pro-Israel group.

During the visit, Chalghoumi told the Israeli president that "the war that broke out after 7 October is not a war between Israel and Hamas or Israel and Hezbollah but a war between two worlds.

"You represent the world of humanity and democracy."

In a video widely circulated on social media, the imam could also be seen attempting to kiss the hand of the Israeli interior minister, Moshe Arbel, who promptly removed his hand.

The gesture and the overall visit sparked an outcry in Tunisia, a country that refuses any form of normalisation with Israel.

A local watchdog, the Tunisian Observatory for Transparency and Good Governance, announced in a statement over the weekend that it was filing a complaint against Chalghoumi for "high treason".

"The actions of the Tunisian national, who led a group of European imams (on a visit to Israel) to express their solidarity and condemn the spirit of resistance are a disgrace and undermine the prestige of the Tunisian state," the watchdog said in a statement.

"The explicit normalisation issued by this individual does not represent or honour the Tunisian people and state, in all its components, as his positions on the Palestinian cause are known to all.

"Chalghoumi's statements constitute direct incitement against resistance to the occupying entity's aggression […] and a call for blatant and public normalisation with the occupying entity," it added.

The Observatory emphasised the need to initiate legal proceedings before military courts "against anyone involved in espionage activities with foreign countries or in normalisation with the Zionist entity".

It also demanded that Chalghoumi be stripped of his Tunisian nationality.

The visit sparked negative reactions elsewhere in the Arab and Muslim worlds.

Al-Azhar, the highest seat of learning in Sunni Islam, strongly condemned it as a "betrayal of religious and human values".

In a statement, the Cairo-based institution said the participants "falsely claimed their visit aimed to promote coexistence and interfaith dialogue, while blatantly ‎ignoring the ongoing genocide, aggression and ongoing massacres against the Palestinian people for over 20 months".

The European Council of Imams in Paris also issued a strong condemnation, calling the visit "suspicious" and asserting that it "does not represent the position of Muslims in Europe".

Meanwhile, a mosque in the Dutch city of Alkmaar fired its imam after he participated in the trip.

The Bilal Mosque said that Imam Youssef Msibih was "immediately removed" from his position.

'The continuity of colonial practices'

A media personality in France who has for years advocated "moderate Islam" and rapprochement between faiths, Chalghoumi is a controversial figure within the Muslim community, notably due to his commitment to normalisation with Israel.

On his social media account, Chalghoumi frequently posts against "Islamism" and warns about the alleged "infiltration and destabilising" goals of the Muslim Brotherhood in Europe.

Last month, the imam sparked outrage after dancing at an event in Paris organised in support of Israel and Israeli captives.

During We Will Dance Again, an Israeli music festival that took place on 22 June, Chalghoumi was spotted dancing on a stage surrounded by Israeli flags.

The event was organised by TheTruth, an association founded to challenge "disinformation, denigration of Israel, antisemitism, political Islam", according to its social media accounts.

Chalghoumi's participation in the festival amid Israel's assault on Gaza and its attack on Iran caused heated reactions online, with users accusing the imam of "celebrating genocide".

For French political scientist François Burgat, a renowned specialist on the Palestinian-Israeli conflict and political Islam, the "fabrication" of Imam Chalghoumi as a "character" is "a persistent deception" that undermines the "representation of Muslims in France".

"The character of Imam Chalghoumi is the expression of the continuity of colonial practices in contemporary France.

"Chalghoumi appears, in fact, as the direct descendant, the exact reproduction of these false Muslim elites fabricated from scratch in Algeria by the colonial authorities to pervert the representation of dominated populations," Burgat wrote.

"In Chalghoumi's case, however, it was not the French authorities who directly initiated this gross manipulation, but rather Franco-Israeli Zionist circles who, with the obvious consent of [the authorities], literally fabricated his character, placing him at the head of an 'Association of Imams of France' created especially for him," the academic added.

"This persistent deception thus represents one of the most serious attacks on the mechanisms for representing Muslims in France."

Original article middleeasteye.net

Strategic Culture Foundation
18 Jul 2025 | 1:00 pm

10. The cost of the Western illusion in Vietnam


Sanctions, tariffs, and interventionism are the legacy of Vietnam's attempt to align with the U.S.

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For decades, Vietnam has sought to reposition itself on the global geopolitical stage as a sovereign, economically dynamic, and diplomatically balanced nation. This path, however, has been marked by significant concessions to the West – especially to the United States – in the hope of gaining commercial and political advantages. The recent episode involving tariffs imposed by the Trump administration, as well as the controversial Trump family real estate complex in Hanoi, reveals that this hope may be little more than a carefully laid trap, in which submission and prestige are exchanged for unfulfilled promises and covert exploitation.

In July 2025, the White House announced a so-called "deal" with Vietnam that would allegedly establish new trade tariffs, reducing the rate on Vietnamese products from 46% to 20%. In exchange, the United States would gain zero-tariff access to the Vietnamese market. However, sources close to the negotiations claim that Hanoi never agreed to the 20% rate – something around 11% was being discussed. Even so, Donald Trump posted the terms on social media as if they had been firmly agreed upon with Vietnam's General Secretary, Tô Lâm, who hadn't even participated in the initial talks.

This unilateral distortion of the negotiation process – turning a complex diplomatic exchange into a self-promotion spectacle – not only caught Hanoi by surprise but also exposed an uncomfortable truth: deals with Trump's United States are not agreements between equals. They are dictated according to Washington's temporary interests and tailored to reinforce the former president's image of strength before his voter base, even at the cost of misleading his partners.

This behavior does not occur in a vacuum. It fits into a broader context of economic pressure and political blackmail, in which Vietnam, desperately trying to avoid sanctions that could affect nearly a third of its exports, accepts unprecedented concessions. A glaring example is the lightning-fast approval of the Trump International Golf Club in Hung Yen – a $1.5 billion real estate megaproject by the Trump family – built on fertile land and local cemeteries, in disregard of zoning, environmental, and public consent laws.

Despite development promises, local residents were intimidated into accepting compensation far below market value and forced to abandon traditional farmland. Vietnamese authorities – in a bid to curry favor with the American president – fast-tracked a process that would normally take years, ignoring basic legal requirements. All this to align the inauguration event with the Trump family's schedule and maximize their political visibility.

The Vietnamese government seems to believe that flattering Trump and prioritizing his personal business interests might bring stability to bilateral relations. However, what we see is the opposite: instability, betrayal of informal agreements, and loss of sovereignty. Trump's erratic and self-centered behavior undermines not only the credibility of his counterparts but also the region's trust in the diplomatic good faith of Washington as a whole.

The intent by some sectors of Vietnamese society to institutionalize a policy of submission to private American interests represents a dangerous setback for Vietnam, which since the Doi Moi reforms has been striving to build a transparent regulatory environment, less prone to corruption. By prioritizing projects like the Trump complex -with legal exemptions and ultrafast approval – the government sends a troubling message to investors: merit matters less than personal connections with foreign power.

In the end, it is the Vietnamese people who pay the price – whether in the form of expropriated land, broken trade promises, or the erosion of national sovereignty. The illusion that aligning with the U.S. – and with Trump in particular – would bring substantial benefits is already collapsing. This becomes even more complicated considering the history of interventionism, war, and genocide perpetrated by the United States against the Vietnamese people – something that, though in the past, must be remembered during Vietnam's decision-making process in bilateral relations.

Vietnam is left to reflect on recent mistakes and reassess whether it truly wishes to follow a path of dependency and concessions, or if it genuinely intends to assert itself as a sovereign nation in an increasingly multipolar world.

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